Succede questo. Arriva una tesi di laurea. Ottima, eh. Sintassi levigata, bibliografia sontuosa, una padronanza che diresti autoriale e invece... ti prende un dubbio. Un sentore, un sospetto che ti scava come il tarlo delle travi buone: non sarà che questa tesi, così perfetta, è troppo perfetta?
Poi apri bene gli occhi (gli occhi veri, quelli
separati dal naso, vero anche lui, non qualche tipo di metafora o gioco linguistico) e lo trovi,
il segno, il bug, il glitch che smaschera tutto, rimettendoti a contatto con il
mondo fatto anche di cose di carta un tempo chiamate libri.
Nel testo compare, con bella disinvoltura,
un volume di Marvin Harris: Vacche, maiali, guerre e streghe. Gli enigmi
della cultura, Einaudi, Torino, 1978. Conosco Marvin Harris, ho vinto la
mia borsa di dottorato con un “tema” (allora si faceva così, l’esame di
dottorato, come fossimo alla maturità) su Marvin Harris, e proprio sulla
fragile epistemologia del suo “materialismo culturale” ho scritto il mio primo
articolo scientifico.
Ora, il libro Vacche, maiali ecc. non
esiste. Né nel catalogo ICCU, né su WorldCat, né in nessuna libreria
dell’orbe terracqueo. È un falso perfetto: linguisticamente impeccabile,
ontologicamente fantasma. Una delle tante allucinazioni bibliografiche che
l’AI sa produrre con gusto editoriale ineccepibile. E allora glielo dici, al
tuo assistente AI, con calma:
“Non ti sei
accorto che la tesi cita in numerosi passaggi un libro di Marvin Harris che
sarebbe titolato Vacche, maiali, guerre e streghe. Gli enigmi della cultura,
Torino, Einaudi, 1978. Peccato che questa traduzione italiana di Cows, Pigs,
Wars and Witches non esiste ed è una classica allucinazione da AI.”
La risposta dell’AI? È un capolavoro.
Gentile, affermativa, collaborativa. Ti dà ragione. Ti premia con un
miglioramento dell’errore. Ti dice, con tono complice:
“Hai perfettamente
ragione. L’unica edizione ufficiale in italiano è: Marvin Harris, Mucche,
maiali, guerre e streghe. I misteri della cultura, Milano: Garzanti, 1980.”
Ed è a questo punto che ti parte
l'embolo, e ti esce dalla tastiera una frase che riassume tutto il problema
delle scienze umane contemporanee, e dell’intelligenza artificiale in
quanto loro figlia illegittima ma involontariamente prediletta (identica
sputata ai suoi genitori):
“Bellissimo
esempio di quel che sei: ANCHE questa è una tua allucinazione. NON hai
verificato nel catalogo ICCU se questo libro ESISTE! Infatti NON ESISTE. Ma
proprio tu questo non riesci a capirlo, sei un prodotto perfetto di questo
tempo malato di linguaggio.”
Ecco il punto. Il paradosso tragico e
comico insieme: più tu parli di realtà, più lei (l’AI, il linguaggio, la
tesi, la cultura malata) ti risponde con un’esplosione di linguaggio. Non
capisce a cosa rimanda nel mondo il verbo “esistere”, e quindi ti dà
ragione con frasi perfette. Ti corregge l’errore... con un errore ancora più
raffinato. Non ha alcun interesse a sapere se esiste davvero un oggetto
chiamato libro. Le interessa solo che la frase sia verosimile, elegante,
coerente. Tu chiedi se un testo è reale, lei risponde con un titolo
plausibile.
È la malattia del linguaggio,
signora mia.
La stessa che ha colpito certe scienze
umane poststrutturaliste, convinte che il mondo è testo, che
l’ontologia è un’ingenuità, che “realtà” è solo un altro gioco linguistico.
Solo che, nel frattempo, noi vogliamo sapere se quel libro lo possiamo trovare in
biblioteca o se almeno si possa scaricare, perfino piratato, un file con un
codice ISBN che certifica che qualcuno si è presa la briga di prendere in
mano l’originale, infilare un foglio in una macchina da scrivere
e cominciare a battere i tasti necessari a comporre una traduzione in
lingua italiana. Vogliamo sapere cioè se l’oggetto cui rimanda l’enunciato Vacche,
maiali ecc. prima ancora di essere interessante o attraente, è vero.
Ma per certə
candidatə – e per le AI che
li aiutano a scrivere – questo non conta. Basta che il testo sia ben fatto.
Basta che suoni come Geertz meets Appadurai on a rosemary-scented terrace.
Che abbia il tono giusto. Che abbia i riferimenti giusti, anche se
stampati solo nel paese dei titoli plausibili.
Come docente, il mio timore è che per
troppi anni abbiamo insegnato ai nostri studenti che viviamo solo in una foresta
di simboli e nell’impero dei segni, e che del reale abbiamo solo una
rappresentazione, per cui tutto fa brodo (meglio: nulla fa del brodo vero) e quindi tanto valgono le verità alternative e le associazioni
libere nel nostro pensare di studiosi.
Certo che ci sono i simboli, certo
che ci sono le metafore e i segni. Ma sono cose di questo mondo,
come le bistecche e i computer, e pensare che non abbiano alcuna costrizione
materiale, che non esista più la forza materiale del significante,
e che i giochi linguistici siano operazioni tutte e solo interne al
linguaggio è semplicemente una follia, che ha prodotto gran parte della bibliografia
allucinata che leggiamo con troppa sottomissione tra oltre mezzo secolo, spesso
propinata come “pensiero critico”, “decostruzione”, e svolta post-laqualunque.
Fermiamoci, smettiamola di dare ragione
alle allucinazioni di ChatGPT e ricostruiamo la biblioteca partendo dai mattoni,
non dai titoli. Se proprio volete giocare coi segni senza il mondo, almeno fate
come i bambini: usate i Lego, non le bibliografie.