2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

venerdì 1 agosto 2025

Ammalarsi di linguaggio


 Succede questo. Arriva una tesi di laurea. Ottima, eh. Sintassi levigata, bibliografia sontuosa, una padronanza che diresti autoriale e invece... ti prende un dubbio. Un sentore, un sospetto che ti scava come il tarlo delle travi buone: non sarà che questa tesi, così perfetta, è troppo perfetta?

Poi apri bene gli occhi (gli occhi veri, quelli separati dal naso, vero anche lui, non qualche tipo di metafora o gioco linguistico) e lo trovi, il segno, il bug, il glitch che smaschera tutto, rimettendoti a contatto con il mondo fatto anche di cose di carta un tempo chiamate libri.

Nel testo compare, con bella disinvoltura, un volume di Marvin Harris: Vacche, maiali, guerre e streghe. Gli enigmi della cultura, Einaudi, Torino, 1978. Conosco Marvin Harris, ho vinto la mia borsa di dottorato con un “tema” (allora si faceva così, l’esame di dottorato, come fossimo alla maturità) su Marvin Harris, e proprio sulla fragile epistemologia del suo “materialismo culturale” ho scritto il mio primo articolo scientifico.

Ora, il libro Vacche, maiali ecc. non esiste. Né nel catalogo ICCU, né su WorldCat, né in nessuna libreria dell’orbe terracqueo. È un falso perfetto: linguisticamente impeccabile, ontologicamente fantasma. Una delle tante allucinazioni bibliografiche che l’AI sa produrre con gusto editoriale ineccepibile. E allora glielo dici, al tuo assistente AI, con calma:

“Non ti sei accorto che la tesi cita in numerosi passaggi un libro di Marvin Harris che sarebbe titolato Vacche, maiali, guerre e streghe. Gli enigmi della cultura, Torino, Einaudi, 1978. Peccato che questa traduzione italiana di Cows, Pigs, Wars and Witches non esiste ed è una classica allucinazione da AI.”

La risposta dell’AI? È un capolavoro. Gentile, affermativa, collaborativa. Ti dà ragione. Ti premia con un miglioramento dell’errore. Ti dice, con tono complice:

“Hai perfettamente ragione. L’unica edizione ufficiale in italiano è: Marvin Harris, Mucche, maiali, guerre e streghe. I misteri della cultura, Milano: Garzanti, 1980.”

Ed è a questo punto che ti parte l'embolo, e ti esce dalla tastiera una frase che riassume tutto il problema delle scienze umane contemporanee, e dell’intelligenza artificiale in quanto loro figlia illegittima ma involontariamente prediletta (identica sputata ai suoi genitori):

“Bellissimo esempio di quel che sei: ANCHE questa è una tua allucinazione. NON hai verificato nel catalogo ICCU se questo libro ESISTE! Infatti NON ESISTE. Ma proprio tu questo non riesci a capirlo, sei un prodotto perfetto di questo tempo malato di linguaggio.”

Ecco il punto. Il paradosso tragico e comico insieme: più tu parli di realtà, più lei (l’AI, il linguaggio, la tesi, la cultura malata) ti risponde con un’esplosione di linguaggio. Non capisce a cosa rimanda nel mondo il verbo “esistere”, e quindi ti dà ragione con frasi perfette. Ti corregge l’errore... con un errore ancora più raffinato. Non ha alcun interesse a sapere se esiste davvero un oggetto chiamato libro. Le interessa solo che la frase sia verosimile, elegante, coerente. Tu chiedi se un testo è reale, lei risponde con un titolo plausibile.

È la malattia del linguaggio, signora mia.

La stessa che ha colpito certe scienze umane poststrutturaliste, convinte che il mondo è testo, che l’ontologia è un’ingenuità, che “realtà” è solo un altro gioco linguistico.
Solo che, nel frattempo, noi vogliamo sapere se quel libro lo possiamo trovare in biblioteca o se almeno si possa scaricare, perfino piratato, un file con un codice ISBN che certifica che qualcuno si è presa la briga di prendere in mano l’originale, infilare un foglio in una macchina da scrivere e cominciare a battere i tasti necessari a comporre una traduzione in lingua italiana. Vogliamo sapere cioè se l’oggetto cui rimanda l’enunciato Vacche, maiali ecc. prima ancora di essere interessante o attraente, è vero.

Ma per certə candidatə – e per le AI che li aiutano a scrivere – questo non conta. Basta che il testo sia ben fatto. Basta che suoni come Geertz meets Appadurai on a rosemary-scented terrace. Che abbia il tono giusto. Che abbia i riferimenti giusti, anche se stampati solo nel paese dei titoli plausibili.

Come docente, il mio timore è che per troppi anni abbiamo insegnato ai nostri studenti che viviamo solo in una foresta di simboli e nell’impero dei segni, e che del reale abbiamo solo una rappresentazione, per cui tutto fa brodo (meglio: nulla fa del brodo vero) e quindi tanto valgono le verità alternative e le associazioni libere nel nostro pensare di studiosi.

Certo che ci sono i simboli, certo che ci sono le metafore e i segni. Ma sono cose di questo mondo, come le bistecche e i computer, e pensare che non abbiano alcuna costrizione materiale, che non esista più la forza materiale del significante, e che i giochi linguistici siano operazioni tutte e solo interne al linguaggio è semplicemente una follia, che ha prodotto gran parte della bibliografia allucinata che leggiamo con troppa sottomissione tra oltre mezzo secolo, spesso propinata come “pensiero critico”, “decostruzione”, e svolta post-laqualunque.

Fermiamoci, smettiamola di dare ragione alle allucinazioni di ChatGPT e ricostruiamo la biblioteca partendo dai mattoni, non dai titoli. Se proprio volete giocare coi segni senza il mondo, almeno fate come i bambini: usate i Lego, non le bibliografie.

mercoledì 30 luglio 2025

Punizione in conto terzi


 L’altro giorno ero in fila in farmacia – di quelle file lunghe, lente, perfette per esercitare la virtù della pazienza passiva – quando una signora, con passo felpato e sguardo assente, ha pensato bene di saltare tre persone e piazzarsi davanti a me. L’ha fatto con la naturalezza di chi si sente mimeticamente innocente. Allora mi sono schiarito la voce, le ho sorriso, e ho chiesto se avesse per caso pagato un biglietto invisibile per l’ingresso VIP. Lei è arrossita, ha detto che aveva una ricetta “urgente”, e ha fatto tre passi indietro. Nessuna scena, nessun applauso. Solo un piccolo caso di third-party punishment applicato al quotidiano.

Già, perché non sempre sono i diretti interessati a far valere le regole. Succede allo stadio, quando il pubblico fischia un tuffo teatrale; succede online, quando un commento infame scatena un’ondata di sarcasmo; succede ogni volta che qualcuno – pur non essendo direttamente colpito – si prende la briga di far rispettare una norma sociale violata. È come se in ciascuno di noi abitasse un piccolo giudice morale, che si attiva non per interesse personale, ma per salvaguardare un ordine condiviso.

Secondo l’antropologia evoluzionistica, questa tendenza ha radici profonde. In un famoso studio comparativo coordinato da Jean Ensminger e Joseph Henrich (Experimenting with Social Norms, 2014), è stato dimostrato che la predisposizione a punire le violazioni sociali anche quando non ne ricaviamo alcun vantaggio diretto è sorprendentemente diffusa in culture diverse. Non è solo moralismo: è un meccanismo adattivo. La third-party punishment disincentiva i comportamenti antisociali e crea un ambiente più prevedibile, più equo, più abitabile. In altre parole, paga non punire per sé, ma per il mondo in cui si vuole vivere.

Naturalmente, ogni buon dispositivo umano ha un rovescio. La stessa spinta che ci fa correggere la signora in farmacia può diventare – se alimentata male – una miccia per l’odio travestito da giustizia. Un paio di like, uno screenshot, e si passa dall’etica condivisa alla gogna virale. L’indignazione, quando diventa professione, si trasforma in linciaggio moralistico. E il piacere di “mettere a posto” qualcuno diventa dipendenza da indignazione.

Eppure qualcosa, nella scena della farmacia, continua a sembrarmi buono. Quel gesto minuscolo, quella messa in scena di una norma non scritta, mi pare racconti un desiderio semplice: vivere in un mondo abitabile anche per chi non sa difendersi da solo. Che poi è, in fondo, la promessa di ogni patto sociale: non lasciare che siano solo i forti a dettare le regole.

E qui arriva il punto più scomodo per certi palati progressisti: l’azione – tranne che per Robinson Crusoe – non è mai davvero individuale. Viviamo in relazioni, non in assoli. E questo pone problemi teorici prima che morali a quanti credono che il proprio sentire basti a legittimare l’agire. I limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio, e il linguaggio – signora mia – nasce da una relazione, non da una sensazione privata. Ogni desiderio, ogni sdegno, ogni bisogno, è l’intersezione di sguardi, non il vagito puro di una coscienza isolata.

Non sarà mai la nostra righteousness (quella presunzione autocertificata di essere nel giusto) né tantomeno il nostro entitlement (la pretesa di aver diritto a tutto ciò che sentiamo) a fondare ciò che è legittimo fare. Né in fila in farmacia, né in una marcia contro il sionismo mascherata da lotta per i diritti.

La verità è che il sistema – pur con tutte le sue storture – resta l’unica protezione per chi non sa alzare la voce, per chi non ha la prontezza verbale o la sfacciataggine muscolare dei piccolo-borghesi indignati. Le regole non sono catene, ma protesi morali per i più vulnerabili. Smontarle in nome di una libertà astratta o di una giustizia “sentita” è un atto di anarchismo narcisistico, che non emancipa nessuno ma rende solo più fragili quelli che non hanno i mezzi per difendersi da soli.

Se la third-party punishment ci renda più giusti o semplicemente più tranquilli, non lo so. Ma so che nessuno diventa giusto da solo, e che non si protegge un mondo condiviso seguendo solo l’urgenza del proprio cuore.

 

lunedì 28 luglio 2025

Diventare romani camminando (in processione)

 


A giugno 2025 sono stato invitato a presentare un power point (che trovate nel video di questo post) al convegno LUISS su L’economia del Giubileo, organizzato con coraggio e grazia da Kristina Stöckl e Rosario Forlenza. Io ho fatto la mia parte portando una storia di periferia, di madonne e di bus notturni: il Divino Amore.

Il video che trovate qui è la presentazione dei contenuti principali del mio saggio Becoming Roman at Divino Amore, che uscirà (salvo imprevisti, non si sa mai) in una raccolta curata da Isabella Clough-Marinaro e Vanda Wilcox per Routledge, dedicata alla Roma italiana dopo il 1870.

Il cuore della questione è semplice: come si diventa romani senza certificato di nascita, senza eredità toponomastica e senza nemmeno l’appoggio di un barista che ti riconosca il caffè sospeso? Risposta: in processione.

Il Santuario del Divino Amore sta in fondo alla Via Ardeatina, e se ci siete stati, sapete che arrivarci è già una piccola Via Crucis. Ma è proprio questa fatica fisica, questo “pregare con i piedi” (copyright Zapponi), che ha trasformato il pellegrinaggio in qualcosa di più. Non è solo devozione: è una forma di appartenenza urbana, un modo per dire “eccomi”, anche se non hai ancora una casa popolare, un medico di base o la residenza in regola.

Negli anni Trenta del Novecento, con l’arrivo di Don Umberto Terenzi, il pellegrinaggio comincia a cambiare pelle. Da pellegrinaggio "dal qui domestico verso il lì sacro" si trasforma in processione collettiva che conferma l'appartenenza alla romanità con un percorso che diventa (con l'espansione urbanistica) sempre più dentro la città. È il passaggio dal cercare il sacro altrove al portarlo qui, tra i marciapiedi dissestati, i quartieri dormitorio e le madonnelle stradarole. Si crea un'idea di Roma come qui, uno spazio non più a disponibilità limitata.

La mia tesi (che potete prendere o lasciare, ma nel dubbio guardate il video) è che il Divino Amore funziona come una macchina di cittadinanza. Una grammatica urbana dell’appartenenza che accoglie chi arriva, ridisegna i confini tra centro e periferia, e costruisce una romanità che non passa per gli uffici dell’anagrafe ma per i rosari multilingue sgranati mentre si cammina.

Alla fine, non si tratta di folklore. O almeno: non solo, se lo si intende nella sua concezione ristretta. La processione è una coreografia civica, un rito che “scrive” la città nei corpi di chi la attraversa. È urbanistica mistica, sociologia dei calli ai piedi, teologia della fermata ATAC.

Insomma, in questo saggio – e in questa presentazione – racconto come si diventa romani senza documenti, ma con una bottiglietta d’acqua, la devozione per Maria, e tanta voglia di camminare insieme.

(Per tutto il resto c’è il video. E, se proprio l’argomento vi appassiona, la pubblicazione Routledge quando uscirà.)

 

venerdì 25 luglio 2025

La fallacia della fallacia dei costi irrecuperabili

 

Uno degli esempi più classici di fallacia dei costi irrecuperabili è il progetto Concorde. Un aereo supersonico straordinario, elegante, affascinante, ma economicamente insensato. Si sapeva fin dall’inizio che non avrebbe mai coperto i costi. Eppure si è continuato a finanziarlo per anni, proprio perché aveva già richiesto un investimento colossale. Buttarlo via avrebbe significato “sprecare tutto quel che era già stato speso”. Hanno dovuto aspettare l’incidente aereo per dismettere, finalmente, il progetto.

Un altro caso a noi familiare: Alitalia. Quanti governi l’hanno tenuta in vita, pur sapendo che era clinicamente morta, solo perché “c’era già stato speso troppo”? Il principio è chiaro: invece di valutare cosa convenga ora, ci si aggrappa a quanto è stato già investito. Come se il passato potesse giustificare il presente.

Questa è, appunto, la fallacia dei costi irrecuperabili. Incaponirsi in un progetto economicamente fallimentare solo perché è costato troppo, anche se è evidente che non porterà alcun guadagno. E in economia ha senso denunciarla. Ma quando la vedo spuntare nei discorsi sulle relazioni umane, mi viene un brivido. Perché lì la fallacia, più che subita, viene invocata. Agitata come salvacondotto etico da chi vuole andarsene senza sentirsi in colpa.

“Ho già dato tanto a questa relazione, non voglio buttare via altri anni”. Frase che suona fredda, razionale. Ma che razionale non è affatto. Perché chi la pronuncia non sta facendo un bilancio costi-benefici: sta cercando un modo elegante per dire che non ama più. E per farlo, usa la fallacia come se fosse una formula etica. Come se la razionalità potesse assolvere dalla responsabilità.

In realtà, la decisione è già avvenuta altrove. Nel corpo. Nel cuore. In quel punto imprecisato in cui si decide che non si vuole più restare. Ma invece di assumersi la propria verità – “non ti amo più” – si preferisce indossare il camice da contabile. Si apre il bilancio e si dichiara che il progetto non è più sostenibile. Non perché non mi importa più, ma perché ho capito che non conviene. Snocciolare la ragionevole lista delle entrate e delle uscite, come un pizzicagnolo con la matita dietro l’orecchio, suona più ragionevole, o almeno ci si convince che sia meno crudele.

Ed è qui che si annida la fallacia della fallacia. Perché nelle relazioni umane non esiste alcun modo oggettivo di stabilire cosa sia un costo e cosa un guadagno. Una notte in piedi con un bambino con l’otite è un debito o un investimento? E una sera in cui si ride insieme, quanto “vale”? E chi stabilisce che cucinare, ascoltare i silenzi, restare anche quando si vorrebbe scappare, siano costi o rendite?

La verità è che non si sa. E non si può sapere. Si può solo scegliere se restare, o no. Ma la scelta va presa con onestà. Altrimenti si scivola nella strategia più subdola: attribuire la colpa all’altro. Dire che “non mi hai dato ciò che mi serviva”, “non mi hai capito”, “non eri presente”. Si riscrive il passato con l’evidenziatore selettivo, si scelgono gli episodi che tornano comodi, si buttano via tutti gli altri. Si mette tutto in colonna, si finge una contabilità. Ma è un teatro. Anzi, una supercazzola affettiva.

Oppure si opta per la versione alla Woody Allen. “Abbiamo fatto un pezzo di strada insieme, ora cresciamo in direzioni diverse, ma ti vorrò sempre bene”. Variante sofisticata e utile: perché consente di sganciarsi senza passare per il cattivo. Così capita che quello lasciato debba pure innaffiare le piante della casa dell’ex, in nome di una stima matura. Una stima che ha smesso di comprendere la convivenza, ma continua a includere il basilico.

Il problema, molto probabilmente, non è chi lo fa. Ma il contesto culturale in cui lo si fa. Viviamo in un tempo in cui chi ci sta intorno – amici, terapeuti, influencer – sembra avere come unico compito quello di validare qualunque nostra scelta. “Se ti fa stare bene, hai ragione”. “Segui il tuo istinto”. “Prenditi cura di te”. Nessuno che dica: “Aspetta. Sei sicuro che non ti stai raccontando una bugia comoda?”

E invece bisognerebbe dirlo. Non per moralismo, ma per rispetto. Perché se esiste un’etica dell’amore, consiste proprio in questo: non giustificare una scelta, ma assumerla. E se non ami più, dillo. Non servono scuse eleganti, né finti bilanci. Basta la verità. È l’unico modo per lasciare senza imbrogliare. Né l’altro, né se stessi. Perché magari, una volta davvero fatti i conti con i propri sentimenti, ci si può anche rendere conto che il "non ti amo più" era solo un modo ulteriore per scappare dal proprio sé relazionale, in nome di un piccolo sé narcisista e fintamente autonomo.

 

mercoledì 23 luglio 2025

Cucire assieme i ricordi

Creta è un posto assurdo, che non conosco affatto anche se la mia specializzazione geografica è la Grecia. Io ho lavorato nella Sterèa Elleda, la Grecia continentale, balcanica, dove si mangia lingua di manzo, l’unico pesce è quello di lago e d’inverno si è investiti da tormente di neve (almeno quando ci stavo io, tra trenta e venticinque anni fa).

Creta invece è un’isola mediterranea per quanto ancora riconoscibilmente veneziana, piena di suoni insoliti per il greco standard che si insegna a scuola. Piena di gente strana, un po’ la Sardegna della Grecia, senza che nessuno si offenda: un’isola che insieme si porta una sua specificità etnica e la forza morale di essere un bastione della nazione “maggiore” cui appartiene, per amore e un po’ per forza.

A Creta si cantano (e ancor più si ballano) le madinadhes. Lo scrivo così, non mantinades, che è una traslitterazione dall’alfabeto greco, visto che la lingua greca non ha il suono “d” autonomo, ma lo produce solo come sonorizzazione della “t” dopo nasale, per cui Freud viene traslitterato SIGMOUNT FROYNT (Σίγκμουντ Φρόυντ) con diversi problemi di resa di pronuncia (si rischia di dire “Sigmud”, oppure “Froind”).

Insomma, madinadha al singolare, parola veneziana: versi di 15 sillabe in rima baciata, spesso improvvisati, come la poesia popolare di tutto il Mediterraneo (o del mondo, ma non lo so, non sono esperto). So però che il modello “alto” della lingua greca cretese è l’Erotocritos di Vitsentzos Kornaros (si può scrivere in diversi modi) che era fratello cretese-greco del veneziano-italiano Andrea Cornaro. Due fratelli: uno scrive il poema fondativo della letterarietà greco-cretese, l’altro scrive centinaia di poesie in italiano (il suo cognome è spesso riportato in veneziano: Corner, con l’accento sulla è, mi raccomando).

Cose che capitano tra i levantini…

Le madinadhes parlano di amori spesso sofferti e questa canzone di Antonis Martsakis mi ha conquistato per come riprende certi temi tipici di questa struttura popolare, ma con una sensibilità e con un “culto della fedeltà” che risale all’Erotokritos e che sento molto vicina a me in questa fase della mia vita. L’immagine del limone e poi dei fiori è quasi stucchevole, certo, ma c’è una consapevolezza della forza del linguaggio che mi commuove.

Non importa che il lume che faceva luce si sia spento, basta la forza della passione a generare dal volto di lei una luce che gli consente di usare anche l’ago e il filo del ricordo. Tenere assieme le cose, nonostante tutto, cucire i pezzi con l’amore anche se quei pezzi, materialmente, non ci sono più. La lampada potrà pure invecchiare, ma la luce che promana dall’amore non può invecchiare, per definizione.

 


https://youtu.be/z4aS66J7Fxg?si=OMFvV342621xwVwE

 

 

ΓΙΑ ΤΟ ΘΕΟ ΜΑΝΑ ΜΟΥ

PER L’AMOR DI DIO, MAMMA MIA

Η λεμονιά που ερέχτηκα σάλλο μοιράσι πέφτει
Για ένα κλαδί λεμονανθό θα με ποδώσει κλέφτη
Αυγή κι ηλιοβασίλεμα λένε ομορφιές του κόσμου
Όσοι δεν εγνωρίσανε τα δυο σου μάτια φως μου

La pianta di limone che amavo è caduta in un altro destino,
per un ramo di fiori di limone mi faranno passare per ladro.
Alba e tramonto chiamano bellezze del mondo,
ma chi non ha visto i tuoi occhi, luce mia, non sa che cos'è bellezza.

Δεντρί που σε καμάρωνα καθημερνή και σχόλη
Κι εδά έγυρες τους κλώνους σου σε ξένο περιβόλι
Όσο περνάει ο καιρός η φλόγα μεγαλώνει
Καίει τα φύλλα της καρδιάς και το κορμί το λιώνει

Albero che ammiravo nei giorni feriali e nei festivi,
ora hai piegato i tuoi rami in un giardino straniero.
Più passa il tempo, più cresce la fiamma,
brucia le foglie del cuore e consuma il corpo.

Θα σαρνηθώ άμα θα δεις δύο φεγγάρια βράδυ
Δυο ήλιους το ξημέρωμα να πορπατούνε ομάδι
Δεν είσαι αγάπη στην καρδιά προσωρινά βαλμένη
Μα είσαι σ ούλο το κορμί μηλιά μου ριζωμένη

Ti rinnegherò solo quando vedrai due lune nella notte,
due soli all’alba camminare insieme.
Non sei un amore passeggero piantato nel cuore,
ma sei radicata in tutto il mio corpo, mio melo.

 

Μηλιά μου κιτρολεμονιά, ρόδο και γιασεμί μου
Ανασασμέ και ανάσα μου και κάθε αναπνοή μου
Ως και ταγριολούλουδα εμπήκανε στη μέση
Και να θαυμάσω δεν μπορώ το ρόδο που μαρέσει

Melo mia, limone e cedro, rosa e gelsomino mio,
respiro e fiato mio, ogni mio respiro sei tu.
Perfino i fiori selvatici si sono messi in mezzo,
e non posso più ammirare la rosa che mi piaceva.

Κάμετε άνθη του μπαξέ στη μέση μονοπάτι
Να δω κι εγώ τη βιόλα μου τη μοσχομυρωδάτη
Έσβησε ο λύχνος που έφεγγα μα δεν το λογαριάζω
Στη λάμψη του προσώπου σου βελόνα μπελονιάζω

Fate, fiori del giardino, un sentiero in mezzo,
che possa anch’io vedere la mia viola profumata.
Si è spento il lume che mi faceva luce, ma non ci bado,
con la luce del tuo volto infilo l’ago e cucio.

Ως κι αν αλλάζουν οι καιροί, ως κι αν περνούνε οι χρόνοι
Παλιώνει ο λύχνος, μα ποτέ το φως του δεν παλιώνει

Anche se i tempi cambiano, anche se passano gli anni,
invecchia la lampada, ma la sua luce non invecchia mai.